Gli anni settanta nel nostro Belpaese sono stati uno dei momenti chiave in cui si condensarono nei fatti una serie di eventi e situazioni determinanti, col loro carico di scorie e veleni, atti a ridisegnare un sistema sociale fragile e vacillante che venne stravolto dall’incedere solenne di inevitabili squilibri, e dalla relative scosse di assestamento, minandone l’ordine precostituito.
Proprio all’inizio dei settanta nel mondo del calcio cadeva come un meteorite la Lazio targata Tommaso Maestrelli che si abbatte come un tornado sulle gerarchie consolidate dell’asset pallonaro, mettendo a soqquadro con le sue gesta gli equilibri insiti di un sistema a spiccata vocazione nordica.
Questa ingestibile banda di Canaglie, con i suoi clan e le sue divisioni interne riuscì in pochissimo tempo a conquistare una promozione in A e uno scudetto costruendo con le sue assurdità intrinseche una delle favole sportive più incredibili e sovversive da ascrivere agli annali.
Materiale complesso e variegato che Angelo Carotenuto ha mirabilmente plasmato nella sua ultima fatica letteraria, edita da Sellerio, dal titolo, per l’appunto, Le Canaglie che ripercorre in parallelo tra l’ottobre del 1971 e il gennaio del 1977, in una cornice romana stracciona e sontuosa, le travagliate vicende di questo improbabile gruppo di ostinato talento e le altrettanto complesse mutazioni genetiche di un Paese alimentato da forti tensioni e alla ricerca di una nuova identità.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare lo scrittore per discutere con lui le dinamiche di questo efficace affresco romanzato in bilico tra la cronaca storica e la fantasia narrativa.
Angelo buongiorno, partiamo dalla genesi del romanzo. Perché hai deciso di scrivere Canaglie?
E’ nato casualmente da alcune ricerche che stavo portando avanti, mi sono imbattuto nelle cronache dello spogliatoio di questa squadra che sembrava riproporre in miniatura le tensioni che erano presenti nella società italiana. Una divisione interna e una marcata polarizzazione che avvolgeva il nostro Paese e che la Lazio di quegli anni rappresentava fedelmente, e da li ho pensato che si poteva raccontare un pezzo di storia d’Italia in parallelo con le vicissitudini di quella squadra, due specchi ideali di un particolare momento storico, gli irripetibili anni settanta.
La figura narrante di Marcello Traseticcio. Ex fotografo della dolce vita traghettato al calcio e alla cronaca nera, realmente ispirato al grande e sottovalutato Marcello Geppetti. Chi era e cosa rappresentava in quegli anni?
Marcello Traseticcio è un testimone funzionale alla storia che volevo raccontare.
Figura narrante che tiene il filo di ciò che accade nello spogliatoio laziale, un custode della memoria e dei frammenti di un passato che un fotografo a quei tempi riusciva ad esercitare.
Un personaggio sconfitto come tanti in quegli anni, costretto a cambiare sia il modo di lavorare che di guardare il mondo e a cui la vita giocherà un destino amaro anche a livello personale che lo costringerà a perdere qualcosa.
Un uomo immerso nel suo tempo che coi suoi scatti e la sua filosofica umanità ci racconta la tragicità e le turbolenze con sguardo attento e disilluso.
Gli anni settanta con tutto il loro carico di gratuita violenza e di indifferibile voglia di cambiamento. La politica e i suoi partiti ebbero un ruolo determinante?
La politica in quegli anni è molto presente e i partiti di certo hanno giocato un ruolo di grande aggregazione, che oggi sarebbe impensabile, attraendo e polarizzando le masse con notevole efficacia.
Addirittura sul Guerin Sportivo venivano pubblicate le scelte elettorali dei calciatori di ogni singola squadra, questo testimonia la centralità e l’importanza che ebbero le correnti e le ideologie politiche in quella fase che nel libro cerco di far trasparire nel loro tragico divenire.
Torniamo alla Lazio e alle figure chiave, Maestrelli e Chinaglia, che nel libro ci racconti in tutta la loro forza e fragilità. Un rapporto, il loro, viscerale e autentico?
Il loro è senza dubbio il rapporto tra un padre e un figlio putativo, Chinaglia era alla ricerca evidente di un’autorità contro la quale ribellarsi o nella quale riconoscersi e aggrapparsi come sostituto di un padre che lui non ha mai avuto.
Uomo di una ricchezza straordinaria e complessa trova in Tommaso Maestrelli, a sua volta genitore di quattro figli, questo ideale paterno e viene accolto e adottato come un quinto figlio anche se all’epoca Chinaglia era solo uno dei tanti calciatori che bazzicava dentro casa sua.
Un allenatore aperto e votato all’accoglienza, una persona che vive in maniera totalizzante il suo lavoro e che con la sua umanità risulterà decisivo nei successivi trionfi biancocelesti.
Il mondo dei media in quegli anni, totalmente diverso da quello di oggi. C’era più rispetto e umanità?
Nel mondo dei grandi giornali non credo sia cambiato sostanzialmente molto, sono ovviamente aumentati i supporto tecnologici e le modalità operative, ma i rapporti di forza rimangono più o meno gli stessi.
Quello che è cambiato è il rapporto professionale tra i giornalisti e il mondo del calcio che da un certo momento in poi si è arroccato su stesso lasciando trafelare sempre molto meno e rendendosi di fatto irraggiungibile.
Oggi paradossalmente possiamo usufruire delle statistiche più analitiche possibili su questo o quel calciatore, ma non è più permesso ad un nonno poter portare il suo nipotino all’allenamento della propria squadra.
Sono le contraddizioni dei nostri tempi ed è un dato di fatto che il calcio di oggi è visibile alle masse da un obiettivo sempre più lontano, negli anni del romanzo era cosa ben diversa.
Il romanzo è infarcito di citazioni in romanesco antico che Traseticcio utilizza spesso nell’incedere del racconto. Un omaggio ad un linguaggio che oggi si è perso per sempre?
Certamente non si parlava con questi idiomi negli anni settanta, nel romanzo quelle citazioni sono abbastanza artificiali così come oggi è il dialetto romanesco.
Non cercavo il vezzo a tutti i costi, ma il mio è stato un tentativo di restituire a questa lingua una dignità ed un’identità che le è stata sottratta col passare degli anni, trasformandola in una macchietta ed una parodia di se stessa.
Un dialetto che aveva una sua storia che progressivamente si è smarrita fino a scomparire, l’ennesima perdita che ho voluto testimoniare nel romanzo.
Anni violenti quelli descritti nel libro, il confine tra la vita e la morte era davvero così sottile?
Anni di sicuro estremamente violenti, molti giovani potevano uscire di casa la mattina e trovare la morte per strada per pura casualità.
Una manifestazione o qualunque luogo di raduno organizzato erano fonte di rischio, si poteva morire per una pallottola vagante o perché ci si trovava invischiati in scontri tra fazioni antagoniste.
L’Italia era imbottita di armi spesso lasciate incustodite come racconto in alcuni episodi, tutti certificati e documentati, e la morte poteva essere accidentale anche per una finta rapina come successe a Rececconi.
Gli omicidi si susseguivano ad un ritmo impressionante, talvolta venivano liquidati in poche righe sui quotidiani e anche all’interno di quella Lazio il possesso e l’uso delle armi era nei fatti una pratica consolidata.
Roma fa da sfondo e da cornice a tutte le vicende umane che si susseguono nel libro. Chinaglia vuole fuggire, Maestrelli vuole essere sepolto nella capitale. Un rapporto di amore ed odio che questa città ispira da sempre?
Il fatto che questa città ispiri sentimenti contrastanti è insito nella libertà di scelta che ognuno di noi fa per cui tenderei sempre a non generalizzare.
Sia Chinaglia che Maestrelli avevano le loro motivazioni specifiche per compiere le scelte che hanno portato avanti e teniamo conto che la vita dei calciatori è in sostanza una vita nomade che di solito preclude l’affezionarsi ad una realtà specifica.
Roma è sicuramente una città cruciale e il romanzo è di sicuro molto romano perché qui c’era la politica qui c’era il cinema e la stampa, una città in cui era impossibile vivere, allora come ora, una vita normale e a luci spente, particolare non trascurabile sui percorsi di vita di entrambi.
I clan dello spogliatoio laziale. Quali erano i rapporti di forza al loro interno? Odio? Rivalità?
Erano di sicuro rapporti tesi ed umorali, un giorno poteva volare la bottiglia in testa e quello successivo un dispettuccio, ma non parlerei di odio.
Non erano certamente amici, erano distanti su tantissime cose eppure sono riuscito in campo a compiere delle meraviglie pur non avendo dei campionissimi in squadra.
Un rapporto anche di rivalità aspra e infantile ricca di aneddoti e curiosità, due clan che si fronteggiano senza arretrare di un metro e il cui valore aggiunto andrà miracolosamente al di sopra di ogni aspettativa.
Il libro si chiude con il nostro reporter che fa i conti con quello che la vita gli ha dato e tolto, per lui bisogna recuperare il senso della strada con tutti i suoi annessi e connessi. Che cos’è per te la strada tanto invocata da Traseticcio?
Credo che ad ognuno il senso della strada può comunicare qualcosa di personale.
Ciò premesso la strada può essere sinonimo di mescolanza in cui siamo tutti li sulla stessa barca senza barriere divisorie, ci si confronta con le proprie idee e quelle degli altri, è il luogo dove si imparano determinate cose della vita talvolta con scaltrezza o furbizia, è un contenitore di tantissimi eventi che fanno parte della vita di quegli anni in cui le regole per stare al mondo venivano da lì, proprio dalla strada.
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