La stoffa del campione

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di Gaetano Buompane

A 13 anni andavo piuttosto bene nel nuoto.

I tempi in vasca erano ottimi e qualche addetto ai lavori già iniziava a esprimersi con un certo interesse.

Il mio forte era lo stile libero e, dimenticate chissà dove, dovrebbero esserci ancora delle medaglie che celebrarono le mie vittorie.

Tre volte a settimana mio padre mi caricava sulla nostra Citroën Visa rossa e facevamo chilometri per raggiungere una piscina della zona nella quale avevano dato le prime bracciate un paio di atleti di spicco del nuoto italiano.

Gli allenamenti consistevano essenzialmente nel nuotare, non c’era molto altro da fare, se non mulinare le braccia una vasca dopo l’altra e tornare a concentrarsi quando l’allenatore gridava di fare attenzione ai movimenti.

Ma a me piacevano gli sport di squadra, che ci potevo fare, e qualche tempo dopo persi completamente la testa per la pallavolo.

Allora uscii dall’acqua e indossai le ginocchiere. Sotto rete ho passato gli anni più felici, preziosi e spensierati della mia vita, ma certo nessun addetto ai lavori vide mai in me un campione su cui investire.

Con la nostra nuova macchina, una Renault 4 bianca, insieme a mio padre e mia madre tornammo a macinare chilometri, questa volta per andare fino a Parma a vedere giocare i veri fenomeni del volley, gli eroi che avevano vinto i Mondiali del 1990.

Le mie possibilità di una vita da sportivo professionista, in sostanza, finirono sugli spalti di quel palazzetto, a festeggiare da lontano e un po’ a invidiare quei corpi tesi nell’agonismo della partita che ogni schiacciata vincente, ai miei occhi, li trasformava in divi.

Che sarebbe successo se il destino mi avesse trattenuto in quella piscina almeno fino a scoprire se avessi avuto la stoffa del campione?

Sarebbero stati sicuramente anni di grande sacrificio e dedizione, un’adolescenza condizionata dagli impegni sportivi e dal sogno di partecipare, magari, ai Giochi Olimpici.

Intanto nella Guinea Equatoriale, un minuscolo paese incastonato tra il Camerun e il Gabon, un ragazzo della mia età, Eric Moussambani Malonga, si ruppe un braccio giocando a basket.

Quando finalmente guarì ebbe il terrore di tornare a giocare e decise quindi, con l’aiuto di un pescatore, di imparare a nuotare. Aveva circa vent’anni e non sapeva né cosa fossero le Olimpiadi né dove si trovasse l’Australia.

Ma Fernando Minko, l’allora presidente del Comitato Olimpico equatoguineano, aveva in mano quattro wild card da assegnare velocemente per poter partecipare, come Paese convitato, a Sidney 2000.

Eric si tuffò nell’unica piscina della città, quella di 20 metri dell’Hotel Ureca, e rimase a galla.

Fu sufficiente per iscriverlo nella prima batteria dei 100 metri stile libero del 19 settembre, in programma da lì a otto mesi.

Dopo tre giorni di viaggio Eric arrivò a Sidney con una preparazione ridicola e senza nemmeno il costume che, per compassione, gli regalò un allenatore della squadra sudafricana.

Insieme a lui, ai blocchi di partenza, c’erano il nigerino Karim Bare e il tagiko Farkhod Oripov che però vennero squalificati perché si tuffarono prima dello start.

Se il destino volle che Eric arrivasse fino a lì, quella non avrebbe potuto essere una gara qualsiasi, con vincitori e vinti.

Eric era solo, con le gambe che gli tremano di fronte ad una vasca di 50 metri che non aveva mai affrontato in vita sua.

Non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a terminare la prova.

E così in quel giorno, in quella piscina, di fronte al mondo intero, vincere ed essere un campione diventò improvvisamente insignificante.

Per approfondire: Eric Moussambani Malonga e Guinea Equatoriale fonte Wikipedia

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Foto da Pixabay

 

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