La prima bambina nata in Italia nel 2021 è stata la piccola Greta, presso l’ospedale San Martino di Genova.
Odio?
È bastata una semplice fotografia pubblicata sui social.
Pubblicata da chi credeva così di augurare a tutta l’Italia un buon nuovo anno, nel segno della rinascita.
E invece quella bambina è stata insultata, rea del proprio colore della pelle.
Odio che scorre fluido attraverso il web.
Una sorte analoga è spettata all’infermiera Claudia Alivernini, prima donna ad essere vaccinata in Italia. Sempre negli stessi giorni.
Ritratta in una foto che avrebbe dovuto suscitare fiducia nel vaccino.
Anche lei minacciata e offesa da una moltitudine di haters.
La cultura dell’odio
Parlarne oggi, all’alba del 2021, rischia di svilirne il senso in un ordinario esercizio di retorica.
Ma di casi simili se ne potrebbero citare tantissimi.
Quasi tutti vengono dimenticati troppo in fretta.
Perché succede?
Di cosa sono colpevoli Greta e Claudia? Cosa giustifica queste aggressioni tra i commenti ad una semplice foto?
Le minacce di morte e offese razziste ed omofobe viaggiano su facebook e twitter con estrema semplicità.
Una cosa di cui, forse, spesso ne sottovalutiamo la rilevanza.
A volte a causa di un pensiero divergente dal proprio.
A volte semplicemente per una diversità che diremo “disgiuntiva”.
O socialmente ritenuta tale.
Pare assurdo, in quella che si supponeva essere la società globale per eccellenza, il futuro che si auspicava decenni fa.
Si parlava di mercati e mondi globalizzati.
Di rete, di unione. Accorciare le distanze. Annullare le differenze.
Si è puntato tutto sulla connessione, che è avanzata enormemente, certo.
Ma il tutto si è limitato ad essere un fenomeno circoscritto al bisogno di proiezione della nostra immagine in un universo virtuale.
È un “virtuale” ormai talmente integrato alla vita di tutti i giorni, da confondere la nostra immagine del mondo reale con quella del digitale.
La nostra immagine digitale.
L’immagine digitale che chiunque di noi ha, utilizzando il web, oggi completa e, in un certo senso, arricchisce la nostra immagine reale.
Essa pervade la realtà in carne e ossa.
L’avatar, immagine digitale, un tempo una sorta di rivincita.
Talvolta uno sfogo delle pulsioni più nascoste e persino bestiali. Le infinite distorsioni.
Il nostro alter ego digitale, modellato più in base a come vorremmo essere che a come siamo. La nostra immagine residua sul web, il nostro Second Life.
Sovente non senza un tocco di malsano protagonismo o -peggio- senso di rivalsa.
Probabilmente è da questa confusione tra immagine digitale e immagine reale che si genera l’equivoco: molti individui pensano di poter persino attaccare tranquillamente chiunque nel web, se lo desiderano.
Convinti che non ci siano ripercussioni nel mondo reale.
Sembra che la violenza verbale sul web sia lecita, ecco tutto.
E che non abbia impatti nel mondo reale.
Misantropo.
Haters. O, come diremmo, misantropi.
I social ne sono infestati da tempo.
“Leoni da tastiera”, sono stati definiti.
Nella filosofia occidentale, la misantropia veniva correlata all’isolamento dalla società umana.
Nel Fedone di Platone, Socrate definisce la misantropia come un principio primitivo e quasi animalesco.
Una modalità che ha origine dalla delusione generata dall’eccessiva fiducia riposta in uomini creduti erroneamente probi.
Da qui il disprezzo, il desiderio di allontanamento dalla società percepita come in toto avversa.
L’esasperazione paranoide di quella che è un’avversione misantropa trova perfettamente dimora nella massima di Jean-Paul Sartre: “L’inferno sono gli altri”.
Nell’agire del misantropo nel web, si ravvisa un intento di giustizialismo castigatore.
Il desiderio di smascherare e mettere in ridicolo presunte verità nascoste. I principi che muovono ad agire hanno irrimediabilmente fonti fragili e poco accurate, ma non importa.
L’atteggiamento forcaiolo e la ripugnanza verso i vizi altrui, può rendere chiunque abbia un account sui social un potenziale Alceste di Molière.
Misantropi moderni, ma ancorati a credenze e superstizioni di qualche epoca fa.
Un curioso paradosso.
“Basta scienza”, diceva uno slogan.
L’odio per la cultura
“Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!”
Ricordate “Quinto Potere”? https://www.youtube.com/watch?v=bT3JAL3meCc&t=1s&ab_channel=davlak
Quello slogan fa il paio con molti degli slogan della politica attuale, privati di contenuti ma impregnati di disprezzo.
Un distillato di rabbia. Giusto per la durata di un tweet.
Un linguaggio secco, diretto, poco articolato. Un rigurgito di rabbia, finalmente comprensibile a tutti.
“Sono incazzato nero” fa quasi rima con il “Vaffanculo” dell’ononimo “Day” di qualche anno fa.
Chiunque comprende un “vaffanculo” e ha voglia di gridarne due o tre, di tanto in tanto.
La deriva di una sfiducia tout court verso ogni istituzione tra cui scuola e sanità, nello stesso calderone in cui cuoce e si rafforza il pensiero comune secondo cui “uno vale uno”, produce la derivazione per la quale “uno vale l’altro”.
E questo è pericolosissimo, perché significa denigrare le competenze e screditarne i meriti.
Complice senz’altro il continuo depauperamento della scuola, dell’università e la riduzione ai minimi termini dei fondi destinati alla ricerca, alla cultura e agli spettacoli.
Praticamente in ogni legislatura degli ultimi trent’anni.
Il risultato?
- Fake news,
- negazionisti,
- antivaccinisti e derivati.
Viene messo in discussione il metodo scientifico da Galilei in poi.
“Io sono il medico di me stesso”, recita un altro slogan.
Conseguenza di un impoverimento culturale che si bea pure di esserlo.
Come un mondo al contrario.
Un mondo in cui insegnanti e medici vengono aggrediti invece che ascoltati con riguardo per la loro preparazione.
Anni di studi alle spalle. Studi che spesso continuano per tutta la carriera.
Le figure di riferimento diventano altre.
Figure alternative, personaggi che parlano un linguaggio comprensibile a chiunque e che preferiscono sciorinare delle “verità che nessuno vi dirà”, intimandovi a svegliarvi.
Personaggi oscuri alla comunità scientifica, eppure indiscutibilmente credibili per il solo fatto di essere su youtube.
Ci mancherebbe.
L’apologia dell’ignoranza.
L’importanza della parola
L’impoverimento della lingua, causa dell’impoverimento culturale.
La lingua è cambiata appresso alla tecnologia. La comunicazione è veloce, istantanea. Dagli sms di fine anni ‘90 ai whatsapp di oggi.
Il tempo dedicato alle letture è sempre meno. E alla fine è il nostro vocabolario ad impoverirsi.
Conosciamo pochi sinonimi.
Secondo le Treccani, nel 2011 si stimava che su un patrimonio lessicale complessivo fatto di ben 470.000 parole di cui è composta la lingua italiana, è sufficiente conoscerne appena 6.500 per coprire il 98% dei nostri discorsi, in media.
È assai probabile che questo numero sia destinato a crollare con gli anni.
Esprimiamo male alcune emozioni perché non ne sappiamo dare una definizione.
Non ne conosciamo neppure il nome.
E spesso, troppo spesso, tendiamo a sottovalutare un aspetto fondamentale: dominare il linguaggio significa edificare il pensiero.
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“Se si ammettono le parole dell’odio nel contesto pubblico, se si accoglie lo hate speech nella ritualità del quotidiano, si legittimano rapporti imbarbariti. Io l’odio l’ho visto. L’ho sofferto. E so dove può portare. Per questo vado a parlare con gli studenti. Gli racconto un passato figlio dell’odio e del rancore disumano e loro mi ascoltano con un’attenzione di cui non smetto di essergli grata.” (Liliana Segre)
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Tempo fa avevamo parlato già di analfabetismo funzionale e della teoria della distorsione cognitiva nota come “Effetto Kunning-Kruger”:
https://menslife.it/la-sindrome-dellimpostore-sapere-di-non-sapere/
E ci eravamo anche interrogati circa la questione bufale e fake news: