È un argomento spinoso, così come lo può essere benissimo una questione di difficile soluzione. Oppure come la via del successo, così ispida che comporta sacrifici, rinunce e sofferenze.
In natura, le spine, sono un deterrente, delle armi di difesa, spesso solo una semplice minaccia. Il dolore è rimasto talmente vivido nella memoria di chi in passato si è punto che alla sola vista delle spine si preferisce passare alla larga.
Le spine graffiano, aprono ferite. Nelle spine si rimane impigliati, le spine possono essere il simbolo di una prigione.
La spina è strettamente collegata al dolore, alla lacerazione della carne, dei tessuti. Alla bellezza della rosa e al sangue di chi tenta di afferrarla.
Oppure rimanda al fastidio, al disturbo, alla tribolazione causata da un attaccante spina nel fianco dei difensori, di un figlio che è amore e preoccupazione allo stesso tempo, una vera spina nel cuore.
Si sta in ansia, in apprensione, quando qualcuno ci fa stare sulle spine, così tanto che lo si può anche odiare.
Ci sono uomini senza spina dorsale, degli smidollati, che camminano ricurvi con la coda tra le gambe e quelli che hanno solo bisogno di staccare un po’ la spina, per riposarsi, riprendere forza e continuare a lottare. Perché la vita, semplice, di tutti i giorni, è sempre stata piena di spine.
Si narra che in un’epoca lontana, a cavallo tra il 1300 e il 1400, Margherita Lotti, originaria di Roccaporena in provincia di Perugia, supplicò Dio perché i due figli morissero prima di immischiarsi nei propositi di vendetta per l’assassinio del marito, Paolo Mancini, ghibellino. Non passò molto tempo che i due, infatti, morirono quasi contemporaneamente di malattia.
Margherita era una donna mite, ma estremamente coraggiosa e persistente. Rimasta sola al mondo, chiese per tre volte il noviziato presso il monastero di Cascia e per tre volte le fu rifiutato. Alla quarta, per mettere alla prova la sua vocazione, la badessa le affidò il compito di far crescere nuovamente uva da un arbusto di vite ormai secco. Quel legno morto, annaffiato ogni giorno con amore e fede, si trasformò, infine, in frutta.
Alcuni anni più tardi, le implorazioni e le preghiere di Margherita di poter sentire lo stesso dolore che Gesù Cristo aveva provato sulla croce furono esaudite e una spina della corona del supplizio le si conficcò miracolosamente nella fronte provocandole una ferita che mai più si rimarginò.
Una stimmate sanguinante, spesso infetta e purulenta, a ricordo indelebile della Passione del figlio di Dio di cui Margherita, ossia Rita, canonizzata santa nel 1900, ben 443 anni dopo la sua morte, fu una delle più intense e compassionevoli devote.
Una spina, dicevamo. Una semplice spina che ci punge un dito, che ci fa ritrarre la mano. Il rosso della goccia di sangue che ci lascia interdetti, quasi increduli che possa essere il nostro. Oppure una spina talmente grande che è capace di trafiggerci, di rimanere conficcata nella carne, di infettarla. Il tormento di un dolore che ci accomuna tutti e per questo incurabile.
Non esiste uomo senza le sue spine, senza i suoi graffi e i suoi tormenti. Non esiste uomo che non abbia almeno una volta maledetto la sua vita diventata, chissà come, un groviglio di rovi. Così come non esiste uomo che non abbia avuto, almeno una volta, timore di aver perso il suo coraggio.
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