Social mania:
“Con il regno della politica sempre più ridotto a confessioni pubbliche, a manifestazioni pubbliche di intimità e al pubblico esame e censura di virtù e vizi privati: con la questione della credibilità delle persone pubbliche che va sempre più sostituendosi alla riflessione su cosa sia e cosa dovrebbe essere l’arte della politica; con la visione di una società buona e giusta praticamente assente dal discorso politico, non sorprende che (…) la gente sia diventata spettatrice passiva di un personaggio politico che offre loro in pasto le proprie remore sentimentali, anziché le proprie azioni” (Richard Sett, The fall of Public Man, 1978)
Zygmunt Bauman, da Modernità liquida, Laterza 2000
Se proprio fosse , vorrei essere giudicato per quello che ho fatto. Sicuramente non per quello che ho detto. Sicuramente una quantità di fesserie di cui rimarrà poco. O nulla.
Quello che sono riuscito a realizzare, invece, è il meglio che potessi fare.
Nel bene e nel male. Le mie sensazioni, gli stati d’animo, le paure vinte o mai superate sono state così tante, contrastanti e mutevoli da non poter rappresentare cosa sono stato come uomo, compagno, padre, e professionista o semplice essere umano.
Le cose che ho visto, vissuto, sono contenute dentro di me e se ne andranno, come diceva il replicante morente di Blade Runner, come “lacrime nella pioggia”, quando il mio corpo cesserà di vivere e la mia mente di fare quello in cui è quotidianamente affannata a fare. Pensare come vivere.
Oggi i social, ma anche i media tradizionali, indulgono nel comunicare vite e pensieri. Formula non inedita – i vecchi rotocalchi insegnano – ma che è implosa nelle sue dimensioni e nei suoi effetti.
Ci si mostra. A nudo. Nel corpo e nei sentimenti.
Sempre, comunque. Anche quando non si dovrebbe.
E tutti sono impegnati a costruire un personaggio che in qualche modo e con dimensioni diverse, diventa praticamente pubblico.
La famosa frase di Andy Warhol dei 15 minuti di celebrità per tutti (si dice “rubata” al fotografo Nat Finkelstein), non è mai stata tanto di moda. Ed è vera.
Per questo ritengo che la nuova frontiera di comunicare se stessi debba essere attentamente rivalutata. Per tutti. Personaggi pubblici e non.
Intanto partendo da cosa sarebbe meglio comunicare.
Se al tempo del vecchio caro telefono con i fili, aveste iniziato a chiamare indiscriminatamente tutti quelli che conoscevate per dire loro come vi sentivate, come vi eravate vestiti, cosa avevate mangiato o peggio il vostro stato d’animo del momento su una notizia di cronaca o un fatto. O la prima castroneria che vi girava per la mente. Alla decima chiamata qualcuno avrebbe chiamato la Neuro. Lo stesso se lo aveste fatto in mezzo alla strada con tutti quelli che incontravate. La vostra vita non sarebbe stata così social. Anzi.
Oggi lo fanno, anzi lo facciamo tutti. Dal cantante rap, all’attore, alla tanto rinomata casalinga di Voghera. Il problema è che la social mania indiscriminata ha preso persino quelli che prima di parlare dovrebbero contare. Almeno fino a 10.
Intellettuali, maitre a peinser, registi, scrittori, filosofi, per non parlare di professori di scuola e insegnanti.
Social mania: Tutti o quasi twittano, postano, scrivono.
A volte perle di saggezza. Più spesso, pensieri estravaganti.
Bisogna stare attenti però. Le parole sono pietre, uccide più la lingua della spada.
Sono massime vecchie. Ma vere.
Le parole restano, come i fatti, specie nel web, anche se meno consistenti sono reali. Possono servire a sancire alleanze, formulare patti, persino dichiarare guerre che infatti vengono annunciate formalmente attraverso parole scritte in dichiarazioni.
Alla tentazione non sfuggono nemmeno personaggi pubblici di un certo peso e rilievo.
Un tempo si annunciavano programmi, riforme. Il cosiddetto “politichese” serviva a dire tante cose senza magari dire nulla. Le convergenze parallele, ve le ricordate.
Finivano sui giornali di cui si consumavano più le pagine di sport che quelle di politica interna, piene di complicati elzeviri.
Complicati ma utili perché è sui libri più difficili che abbiamo provato a imparare qualcosa. Tanto che ancora ne discutiamo.
Ma la narrativa dei sentimenti, dello stato d’animo.
Questo reality ininterrotto di stati d’animo individuali, singhiozzi, esaltazioni, rimbalzati da Tg e siti web.
Gli insulti, i rancori, le tentate riappacificazioni. E poi gli amori, le passioni, gli hobby, i tic e le manie.
Le uscite pubbliche dalla piazza…alla vasca da bagno.
Il vedere pubblico, anche istituzionale, si gonfia di roba senza utilità né significato.
Un po’ come se Napoleone fosse passato alla Storia per gli amori contrastati con Giuseppina di Beauharnaise e non per Austerlitz, Wagram, Waterloo o il Code Napoleon, il Louvre.
L’operetta e il rotocalco che pure appassionano, non sono i veri fatti su cui si dovrebbe essere valutati e soppesati. Specie a quei livelli. A meno che non siano il fulcro dell’esistenza di una persona.
La pur “vacua” intramontabile Marilyn è entrata nella grande cronaca delle vicende umane per il suo pericoloso flirt con JF Kennedy. Uno dei più grandi e discussi Presidenti americani. I film che comunque ha fatto, sono l’altra parte della sua vicenda umana. E più che parlarne, li ha realizzati non solo raccontati con buona pace dei suoi detrattori.
Allora perché questa social mania che trasforma in fiction una realtà che tocca la vita di milioni di persone ?
Oggi il premier o il vice sono tristi. Hanno litigato. Faranno pace ? Domani entusiasti diranno di cambiare il Paese. Comunque vada sarà un successo.
Se non vero almeno annunciato.
Social mania: Prigionieri di una fiction reality da Grande Fratello rischiamo di finire con un Mark Caltagirone virtuale alla guida delle sorti di un Paese, un’azienda, un partito, sulla base degli stati d’animo condivisi capaci di generare attenzione, comprensione, simpatia o il loro esatto contrario?
Speriamo di no.
Ma il rischio anche con le nuove tecnologie esiste. Come nel Grande Fratello, non quello della D’Urso ma di George Orwell, https://it.wikipedia.org/wiki/Grande_Fratello_(1984).
Il consenso anche quello ottenuto attraverso l’emotività, non è tutto. Ci vuole anche altro. E non si guidano i popoli con la pancia ma col cervello e il raziocinio. Altrimenti avremmo ancora i terribili dittatori del ventennio.
Bravissimi nel parlare al popolo sovrano.
Nel radunare le masse. Tutti. O almeno quelli da non far fuori. Da Hitler a Stalin a Polpot.
Di destra e di sinistra. Giudicati tutti dalla Storia e dall’umanità, per fortuna, per ciò che hanno fatto e non per quello che hanno detto, scritto, o peggio sentivano di fare.
Una volta ero ad Abardeen per il matrimonio di un caro amico. Era mattino presto in aeroporto. Tornavamo a casa. In sala d’attesa nel piccolo scalo c’era l’allora premier inglese David Cameron. Seduto vicino a noi. Con la moglie. Come un normale passeggero in attesa. Forse c’era la scorta. Ma non l’ho vista. Niente selfie con gli addetti allo scalo o con i passeggeri, altrettanto discreti.
Una persona normale che faceva un lavoro decisamente particolare. Un grande capo di Stato.
In volo lessi il giornale. Sul Guardian c’era un suo articolo. Un’analisi su quello che stava succedendo in Gran Bretagna e in Europa, poco prima della Brexit.
Forse l’attuale premier Boris Jhonson, con la sua vistosa zazzera bionda non sarebbe stato altrettanto discreto.
O forse sì.
Non ho visto tweet, post o altro su come si sentiva. Un premier di una grande potenza mondiale in un momento così delicato. Ho letto il suo pensiero. Poi visto le sue azioni.
Non sono tutte riuscite.
La Brexit è stata causata anche da lui.
Ma sarà per quello che sarà ricordato. Quello che ha fatto.
Non quello che aveva mangiato. Postato o twittato.
Tempo di lettura: 1’50”
Foto tratta da: http://www.legendsandleaders.com.au/event/social-media-mania/