Sarete certamente d’accordo se dico che questi siano tempi duri, anzi durissimi. Per uno incline al pessimismo come me, addirittura terribili.
Eppure ho conosciuto un tizio sfaccendato e goliardico, che ama riunire gruppi di amici, organizzare uscite, incontri e cene e per il quale ogni occasione è buona per festeggiare e stappare una bottiglia.
Lo ammetto, alle volte mi sono fatto coinvolgere, per noia in definitiva, ma quelle rimpatriate non sono riuscite a soffocare i miei sbuffi di insofferenza.
In un paio di occasioni ci ho anche provato a fare il simpatico, a tentare di scordarmi degli affanni della vita, ma a dirla tutta mi sono sempre sentito un pesce fuor d’acqua, avete presente? Totalmente incapace di lasciarmi andare, con la mente sempre offuscata da mille pensieri.
Lui, quel mio amico, invece, non è mai riuscito a capirmi, a decifrare il mio dramma, a definire la mia indole. Siamo troppo differenti io e lui, una visione della vita agli antipodi.
Non ha mai perso l’occasione per dirmi con sincera delusione, davanti a tutti, “Mamma mia! E ogni tanto fattela una risata”.
Chissà che cosa abbia tentato di fare, forse ha pensato di dovermi aiutare, salvarmi da qualche sconosciuto malessere. Davvero, un uomo che non se la goda non lo concepisce.
È inutile dirvi come sia andata a finire. Ho voltato le spalle a tutta quella ostentata allegria che ha ottenuto solo il risultato di esasperarmi.
In realtà non riesco a capire cosa ci sia da ridere, per quanto mi sforzi non trovo il motivo.
“Che lei sappia ci sta qua una tomba, un cognome come sorriso, rise, risata, come me viè da ride?”.
Nei miei incubi peggiori appare sempre il becchino strabico che fa segno di fare silenzio e risponde che c’è poco da ridere. E mi fa pure il gesto di smammare.
Per lungo tempo ho maledetto il piacere della solitudine, il mio essere esageratamente riflessivo, decisamente refrattario all’entusiasmo. Ho maledetto il mio sentirmi sbagliato.
Ma che ci posso fare se non ce la faccio a ridere, a festeggiare?
Credo di essere affetto da quella che potremmo definire Sindrome da VAR, ossia la cronica incapacità di gioire di qualcosa per la paura e la convinzione che quella gioia mi sarà certamente negata e si trasformerà in delusione.
E non importa se quella soddisfazione, quel traguardo o gioia, sarà invece confermata.
La spontaneità dell’esultanza si è comunque già dissolta in quel iniziale timore e ciò che rimane è un senso di amarezza.
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