Quest’anno la Befana ci ha portato un bel regalo. Infatti lo scorso 6 gennaio è stato autorizzato dalla Fda americana un nuovo farmaco (Leqembi, lecanemab) per curare il morbo d’Alzheimer, una malattia che nel mondo colpisce circa 55 milioni di persone (in Italia oltre 1 milione e 200 mila).
Cifra destinata a raddoppiare ogni 20 anni. Il medicinale rallenta il progredire della malattia ed è un enorme passo avanti per il trattamento di una patologia malattia che ruba i ricordi.
La Alzheimer’s Association, la principale associazione di malati di Alzheimer, si è detta “entusiasta” per la notizia, una “pietra miliare per i destinatari della terapia”.
Il morbo di Alzheimer è una patologia correlata alla distruzione delle cellule nervose presenti nelle aree del cervello che regolano i processi di memoria e apprendimento.
È un disturbo cerebrale irreversibile, che distrugge lentamente la memoria e le capacità di pensiero e, infine, anche la capacità di svolgere compiti semplici.
Le cause specifiche non sono ancora completamente note, ma sembrerebbe che la patologia sia legata alla degenerazione di due proteine, la beta-amiloide e la Tau, responsabili rispettivamente della formazione di “placche senili” e di “grovigli neuro-fibrillari” e del conseguente degrado di alcune aree del cervello.
Alzheimer. Lo stato dell’arte.
Ad oggi, non esiste una cura per la demenza. Attualmente vengono utilizzati farmaci che facilitano la trasmissione delle informazioni tra le cellule nervose del cervello.
Possono migliorare temporaneamente le capacità cerebrali o ritardarne il deterioramento.
Ciò consente di rimanere indipendenti più a lungo. Finora vengono impiegati farmaci “sintomatici” (cioè finalizzati all’attenuazione delle manifestazioni cliniche della malattia) per migliorare la qualità della vita di malati, parenti e personale di cura. Prima si utilizzano i medicamenti, maggiore è la loro efficacia.
Parliamo dell’estratto di ginkgo che favorisce la circolazione del sangue nel cervello e aiuta in caso di difficoltà di concentrazione, smemoratezza, vertigini e stanchezza.
Per trattare le forme lievi o moderate di Alzheimer, si possono usare gli inibitori dell’acetilcolinesterasi (acetilcolina, donepezil, rivastigmina, galantamina) che facilitano la trasmissione delle informazioni tra le cellule nervose del cervello.
Negli stadi più impegnativi, si può utilizzare la memantina che riduce i disturbi comportamentali (irrequietezza, aggressività, voglia di muoversi, deliri legati alla demenza).
Alzheimer. Il futuro prossimo venturo
Da qualche anno la ricerca scientifica si sta indirizzando verso lo sviluppo di terapie “causali” (consistenti nella rimozione delle cause della malattia), per impedire/rimuovere la formazione delle placche di beta-amiloide, con ricadute positive sulla progressione della malattia.
Analogamente a quanto avviene per il colesterolo e l’infarto. Lo scorso anno la FDA approvò con notevoli polemiche l’Aducanumab, Aduhelm, un anticorpo monoclonale in grado di eliminare le famigerate placche.
A causa dei dubbi sui dati presentati, il programma sanitario governativo Medicare, che negli Usa copre le spese mediche degli over 65, negò la copertura assicurativa per il farmaco.
Non avendo ricevuto un’autorizzazione neppure in Europa, l’Aduhelm è rimasto finora inutilizzato.
Alzheimer. Il nuovo farmaco. Pro e contro.
Recentemente è stato approvato con procedura accelerata dalla FDA (per l’Ema l’autorizzazione è prevista a fine marzo), il lecanemab, Leqembi (un anticorpo progettato per dire al sistema immunitario di eliminare l’amiloide dal cervello), sulla base dei risultati di uno studio condotto su 856 pazienti con decadimento cognitivo lieve e presenza confermata di placche di amiloide-beta.
Il lecanemab è stato somministrato ogni quindici giorni per infusione.
I risultati non sono stati miracolosi: Il nuovo medicinale “rallenta in modo modesto” la progressione del problema (solo il 27% dei pazienti trattati ha registrato un rallentamento del declino cognitivo. Inoltre può avere effetti collaterali importanti: emorragie cerebrali (17% dei partecipanti) e gonfiore cerebrale (13%).
Si tratta di un effetto modesto, ma ci dà un po’ di speranza, e la prossima generazione di farmaci potrà essere ancora migliore.
Di strada ce n’è ancora da fare. Probabilmente anche Leqembi non sarà la soluzione del problema.
Ma non per questo bisogna darsi per vinti e abbandonare la ricerca.
Tempo di lettura: 2’30”