Intervista a Diego Nargiso

41888

di Fabio Bandiera

L’Attuale momento virtuoso del tennis italiano, tanto atteso per tantissimo tempo, è esploso grazie ad una serie di talenti e di performance che hanno riportato il mondo della racchetta azzurra ai vertici di un movimento che, dopo il boom delle ragazze, era riprecipitato in un buco nero dal quale si faceva fatica a rivedere la luce.

Sinner, Berrettini e Musetti si sono proiettati stabilmente, a suon di risultati, intorno ai primi quindici-venti del mondo, con Matteo che ci ha regalato una favolosa storica finale a Wimbledon attesa e inseguita da sempre.

Prima di loro bisogna tornare indietro nel tempo, a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio del terzo millennio, quando un altro gruppo di atleti straordinari era riuscito a raggiungere risultati di tutto rispetto a livello Atp e un’altra storica finale di Coppa Davis a distanza siderale dalle imprese settantine Fab Four.

Camporese, Gaudenzi, Canè e Diego Nargiso, questi i principali moschettieri di quest’epoca meravigliosa dove la Rai trasmetteva in chiaro e bisteccone Galeazzi era il cantore supremo delle italiche gesta. Diego Nargiso, da sanguigno e caloroso napoletano, è riuscito a infiammare le platee soprattutto con le sue imprese da grande doppista, guidando da vero capo-popolo l’Italia a caccia della seconda insalatiera.

Un talento mancino a cui è mancato quel quid caratteriale e quella costanza agonistica per accedere ai gradini più alti delle classifiche, ma che tutti noi amanti di questo sport ricordiamo come uno dei più talentuosi e funambolici interpreti, senza se e senza ma.

Trasferitosi in provincia di Como abbiamo avuto il piacere di incontrarlo per condividere alcune riflessioni sull’attuale momento del tennis nostrano e sulla sua Academy che da anni si propone di formare e scoprire nuovi talenti.

 Diego buongiorno, partiamo dal momento attuale del nostro tennis, stiamo vivendo un piccolo rinascimento con diversi atleti a ridosso della top ten. Bicchiere mezzo pieno con ampi margini di miglioramento nel medio lungo periodo? Sinner e Musetti sono ancora molto giovani.

Assolutamente si,è sotto gli occhi di tutti che abbiamo atleti che ogni settimana lottano e competono per andare a conquistare dei tornei nonostante dei fisiologici cali di forma.

Da quando Matteo è esploso, con dei risultati straordinari, si è portato dietro sia Jannick che Lorenzo Musetti senza dimenticare anche gli ottimi risultati di Lorenzo Sonego.

Ci sono anche tanti altri giovani che stanno tentando di salire nella top 100 per cui è innegabile che il tennis azzurro sia in salute e stia vivendo un momento estremamente positivo che speriamo di concretizzare, dopo la straordinaria finale a Wimbledon di Matteo, cercando di tornare a vincere a breve uno Slam.

Con l’uscita di scena di Roger e probabilmente a breve di Rafa, c’è rimasto Nole come baluardo di questo ventennio incredibile. Proiettiamoci nel prossimo futuro, ci saranno più equilibrio e più sorprese rispetto a questo irripetibile oligopolio dittatoriale?

Il tennis di vertice è sempre stato costellato da grandi rivalità che sono il sale di ogni sport, creando appassionati e schieramenti identitari per cui tifare. Nel futuro credo che Carlos Alcaraz possa essere di sicuro uno dei primi tre quattro giocatori al mondo, poi dietro di lui c’è un gruppo di giocatori che potranno dire la loro e tra questi c’è di sicuro anche Sinner.

Spero e credo anche nel recupero fisico di Berrettini che ha dimostrato ampiamente di valere i primi del ranking, mentre Musetti avrebbe bisogno, per maturare nel tempo, di affiancare oltre al bravissimo Simone Tartarini che lo ha portato nei primi venti un coach esperto di livello che possa fargli fare quel salto di qualità e portarlo stabilmente a ridosso della top ten.

Torniamo un po’ indietro nel tempo, Diego Nargiso si avvicina al tennis per quale motivo? La scintilla ti è scattata subito? Quando hai capito che potevi competere e diventare un professionista?

Ho cominciato come tanti guardando le finali in tv di John McEnroe contro Borg e Connors, poi in Italia avevano il grandissimo Adriano Panatta che aveva un gioco per me fantastico e spettacolare che mi ha fatto scattare quella passione smodata per la racchetta.

Ho consumato il muro di casa a colpi di palline finchè mia mamma disperata, che temeva che il tennis non fosse lo sport adatto per il mio fisico, un giorno ha dovuto cedere e da lì è cominciato tutto.

Non c’è un momento preciso in cui un atleta capisce di poter essere competitivo ai vertici, ma il mio amore tenace e morboso verso questo sport è stato la molla che mi ha permesso di andare avanti senza mai voltarmi indietro perché il mio sogno era quello di stare su un campo da tennis a giocare contro quelli che da ragazzino vedevo in tv.

I primi risultati giovanili poi hanno alimentato questa mia voglia di arrivare dandomi quella forza interiore e quella fiducia che mi hanno permesso di fare il tanto agognato salto di qualità.

Singolo e doppio, mondi paralleli completamente diversi? Cos’hanno di diverso a livello tecnico e di approccio psicologico? Tu sei stato uno dei più grandi doppisti di tutti i tempi, doti naturali o tanto lavoro? Nel singolo avresti potuto esprimerti ad un livello più alto? Qualche rimpianto?

Tra singolo e doppio c’è una differenza abissale perché il potersi relazionare con qualcuno durante un match ti permette di scaricarti, di condividere le emozioni e di avere quel manforte che nel singolo non riesci ad avere.

Per me il doppio era sicuramente più congeniale e confacente alla mia indole da giocatore d’attacco riuscendo ad esaltare il mio modo di fare tennis mentre nel singolo è stata tutta un’altra storia.

Non ho rimpianti perché la mia carriera da singolarista ha riflettuto, senza se e senza ma, i miei valori con grandi soddisfazioni e picchi alti di rendimento e momenti meno positivi frutto della mia incostanza caratteriale.

La ripetitività di questo sport è stato sicuramente un fattore per me limitante che si è concretizzato talvolta in una incapacità di esprimermi in campo come avrei voluto e per un tempo molto prolungato, cosa che in uno sport come il tennis, che non ha durata, accade spesso.

La tua Academy, com’è strutturata e che bacino di utenza avete? C’è qualche prospetto interessante che stai seguendo in questa fase? Il lockdown ha favorito il tennis con nuovi iscritti?

Sicuramente uno sport individuale senza contatto come il tennis ha avuto dei vantaggi dal Covid, non subendo le restrizioni che hanno subito molti altri sport.

A questo aggiungiamo il buon momento che stiamo vivendo a livello Atp che sta spingendo molti giovani ad identificarsi con i grandi campioni del nostro tennis  invogliando molti ragazzi a provare, cosa che vedo giornalmente nella mia Academy che gestisco vicino Como dove vivono i miei figli.

E’ una zona non troppo inflazionata dove ho oltre cinquanta agonisti suddivisi nelle varie fasce di età, ho rinunciato a seguire per motivi di tempo atleti classificati nel main draw internazionale che hanno bisogno di essere costantemente allenati concentrando le mie attenzioni sui più piccoli tra i quali ho diversi prospetti interessanti, tra i quali la under dodici numero uno australiana.

Ricordi più belli, uno in particolare? Delusione più grande?

Partiamo da quella più brutta, la sonora sconfitta contro Skoff in Coppa Davis, dovuta anche ad una brutta distorsione alla caviglia prima del match, mentre la più bella è di sicuro la mia prima vittoria al Foro Italico quando ho sconfitto Emilio Sanchez che all’epoca era tra i primo dieci del mondo, avevo solo diciotto anni e mi son trovato sul centrale a Roma trascinato da un pubblico incredibile.

Da quel momento è scattato quell’amore tra me e la Citta Eterna che mi ha fatto sentire più giocatore del popolo, a cui mi sono sempre sentito vicino, che ha sempre ricambiato la mia voglia di trasmettere emozioni sul campo.

A questo va aggiunto di sicuro l’attaccamento alla maglia azzurra e a tutte le imprese ottenute in Davis in azzurro che mi porto dentro una per una.

Quanto e come è cambiato il tennis moderno in questi ultimi venti anni? Troppa potenza e meno tecnica? E’ un po’ più noioso o è solo una mia impressione? Una cosa che cambieresti?

Il tennis moderno viaggia ad una velocità impressionante e questo fa un po’ storcere il naso ai non addetti ai lavori che rimpiangono gli anni passati dove veniva più apprezzato il gesto tecnico, mentre oggi la potenza con cui viaggia la pallina ha ridotto sicuramente lo spettacolo.

Manca anche quel contrasto tra stili diversi tra chi attaccava col serve and volley e chi prediligeva il gioco da fondo, oggi si gioca molto a specchio in modi speculari che non sempre divertono gli spettatori.

Da addetto ai lavori invece mi rendo conto di quanto lavoro ci sia dietro e della difficoltà di gestire ritmi così elevati ad una velocità folle, per cui i top player di oggi sono dei fenomeni assoluti che giocano ovviamente un tennis diverso, ma inevitabilmente al passo coi tempi.

Lo stravolgimento della Davis, è pura follia? Tornare quanto prima alla formula originale?

Si bisogna tornare alla formula storica che coinvolgeva le singole nazioni esaltando le prestazioni degli atleti che, come è successo spesso a me, in Davis hanno ottenuto tantissime soddisfazioni anche grazie all’entusiasmo del tifo e a quel senso di appartenenza ad una nazione che solo in questa kermesse trova il suo motivo di esistere.

Spero che Andrea Gaudenzi, attualmente presidente dell’Atp, riesca realizzare questa inversione di rotta che di sicuro farebbe bene al nostro sport.

Lo stress mentale che ha bruciato molte carriere talentuose e l’aspetto che può fare la differenza ad altissimo livello? I mental coach sono una figura stabile nel tennis?

Qualsiasi atleta senza un equilibrio stabile fa fatica ad esprimersi con continuità, oggi ci sono figure specifiche che lavorano su questi aspetti che sono imprescindibili per chi vuole arrivare a degli standard elevati.

Nel tennis moderno tra tornei che si susseguono e stress non indifferenti è chiaro che la tenuta mentale vada allenata e preservata, sia dal punto di vista della resilienza che in quello della freddezza nel gestire le situazioni decisive in un match.

Nella nostra Academy abbiamo un mental coach che lavora già con i ragazzi di tredici-quattordici anni formandoli e preparandoli a quel percorso di crescita che deve essere graduale altrimenti rischia di travolgerti sotto l’onda di emozioni che non riesci a gestire.

I tesserati nel tennis non mancano, giusto? Un appello e un invito a provare vogliamo comunque farlo sfatando i falsi tabù che dicono che questo è un sport che isola invece di aggregare e che tira fuori nelle nostre pulsioni peggiori invece che ampliare la nostra condivisione e l’accettazione anche della sconfitta?

Per me il nostro sport è eccezionale per vari motivi, innanzitutto perché va a braccetto con la vita richiedendoti quella capacità di problem-solving che fa parte del nostro vivere quotidiano.

A questo aggiungo che avendo tante pause ti permette di essere solo con te stesso e di conoscerti meglio focalizzandoti sulle tue forze e debolezze, hai modo di riflettere e di analizzare la strategia migliore per vincere un match dando il meglio di stesso.

Non è affatto vero che non sia aggregante e la mia Academy me lo dimostra tutti i giorni, abbiamo cinquantacinque iscritti suddivisi in undici squadre che si rispettano e condividono dei valori giocando l’uno per l’altro e rispettando chi sta dall’altra parte del campo.

C’è amicizia, interscambio e cameratismo per cui non abbiate nessun dubbio e fate provare ai vostri figli le emozioni che solo questo sport riesce a donare.

Fabio Bandiera

Tempo di lettura: 3’00”

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.