Le varianti del Covid – Il mondo è bello perché vario?

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di Alberto Aiuto

Il mondo è bello perché vario è un altro proverbio quanto meno discutibile.

Siamo in casa da un anno, con le solite carenze organizzative e viviamo alla giornata sull’onda delle emozioni.

Combattiamo un virus, munito di corona, che in poco tempo è divenuto “uno e trino” (per ora), a causa di tre varianti, che dovremmo considerare innocenti fino a prova contraria.

L’unica ragione di vita dei virus è di potersi riprodurre.

Durante il suo ciclo replicativo, prevarrà sempre la forma che consente di infettare il maggior numero di persone con il minor numero di particelle virali.

Dunque più virus circolano, più aumentano le probabilità che una mutazione modifichi la conformazione virale, l’infettività e la suscettibilità al vaccino.

Il lockdown e misure simili fermano questo meccanismo.

Dall’inizio della pandemia, sono state scoperte migliaia di mutazioni:

Soltanto quelle che coinvolgono la “proteina spike” (l’uncino con cui il virus si aggancia alla cellula vivente per riprodursi) sono più di 4.000.

Finora sono state individuate 3 varianti, denominate Inglese, Sudafricana e Brasiliana, più contagiose.

Sembra tuttavia che il loro impatto sull’efficacia dei vaccini sia limitato.

Come dire che uno scarafaggio può essere dieci volte più resistente alla pressione della scarpa, ma alla fine viene schiacciato comunque.

Ma perché sono più contagiose?

Sappiamo che l’infezione avviene quando un numero sufficiente di virus entra nelle cellule, mediante un recettore specifico, denominato Ace2.

Ma il virus per entrare deve avere una chiave adatta.

Esattamente come succede a noi quando rientriamo a casa.

Se non abbiamo la chiave giusta restiamo fuori.

Possiamo immaginare la sequenza dei dodici aminoacidi della proteina spike come quella delle scanalature e intagli di una comune chiave.

Se attraverso un colpo di tosse od uno starnuto di una persona molto contagiosa, inalo una miriade di goccioline piene di virus, l’infezione avverrà solo se molte particelle virali riusciranno a superare le difese (aspecifiche), ovvero una specie di colla, il muco, che lo intrappola, e le ciglia sulle cellule mucosali, che continuamente spazzano via i corpi estranei.

A questo punto il virus arriva sul recettore, vi si attacca e penetra nelle cellule, dove dovrà superare anche le difese che ho dentro le cellule.

Dunque è necessario non solo che il numero delle particelle virali (la carica virale) sia elevato, ma che il legame spike-recettore sia forte.

Si tratta della cosiddetta affinità.

Tanto più è alta, tanto più stabile sarà il legame.

Ora, se l’affinità è bassa, poche particelle virali riusciranno ad attaccarsi stabilmente al recettore e magari non sarò infettato; nelle varianti incriminate, la sostituzione di alcuni aminoacidi ha prodotto un aumento della forza del legame.

Questa maggiore affinità determina una maggiore capacità infettante.

In altre parole, il cambio di affinità comporta che il virus mi può infettare con un minor numero di particelle.

Quindi una mutazione ad alta affinità rende il virus più contagioso, non necessariamente più letale.

Di conseguenza aumenta il famigerato Rt, che fa scattare le misure di isolamento.

Non esiste ancora alcun elemento che induca a pensare che queste mutazioni possano essere resistenti agli attuali vaccini.

Di fatto, i casi nel Regno Unito, dove la variante inglese predomina, sono scesi del 77%, dal picco del 9 gennaio scorso, e quella in Sudafrica è scesa del 87%, dal picco del 11 gennaio scorso.

Nella peggiore delle ipotesi, non si dovrebbe ricominciare da zero con la sperimentazione ma fare un aggiornamento della composizione del vaccino, in modo simile a quanto avviene ogni anno con quello influenzale.

Siamo in trepida attesa di conferme, anche se possiamo già affermare qualcosa, abbastanza rassicurante.

Alberto Aiuto

Tempo di lettura: 3’00”

La voce del podcast è di Fabrizio Varcasia

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